sabato 23 settembre 2017

A cena con Joe.


   Dopo il caffè Joe mi propose di andare a cena fuori. Non ci trovai niente di male, e anzi mi faceva molto piacere. Di certo Berni non correva nessun rischio. Non ci aveva provato con me cinque anni fa e quindi non lo avrebbe fatto neanche quella sera. Insomma, ero quasi certa che non vi erano i presupposti per un eventuale cornificazione del mio futuro marito. E allora gli dissi di sì; mi sarebbe passato a prendere alle otto a casa con la sua auto e saremmo andati insieme.
   Così verso le sei me ne andai dal negozio e ritornai a casa per prepararmi. Indossai un vestito porchissimo rosso, così corto che dovevo continuamente tirarmelo giù altrimenti rischiavo di rimanere col culo di fuori. E sia davanti che dietro il vestito aveva due aperture veramente terribili; davanti il vestito era aperto fino all’ombelico, e sotto non portavo il reggiseno (in verità non lo portavo mai, proprio come mia madre), quindi ogni tanto i capezzoli delle tette facevano capolino fuori. Dietro l’apertura era altrettanto generosa, e arrivava fino al fondoschiena, e da cui chiunque poteva vedere i bordini del perizoma nero che indossavo sotto.
   Quando mi vide Berni a momenti si sborrava nelle mutande.
   “Accidenti quanto sei gnocca” mi disse.
   “Grazie tesoro” gli risposi mentre cercavo di infilarmi gli orecchini a goccia che mi aveva regalato mia madre per il mio diciottesimo compleanno.
   “Dove stai andando?”.
   “A cena con un fornitore” gli risposi. Non ero sicura che Berni conoscesse Joe. Forse soltanto di fama. In effetti non li avevo mai visti insieme, perché frequentavano comitive differenti. “Tu te lo ricordi Joe?”.
   “Mmh… no. Questo nome non mi dice niente”.
   “Quel ragazzo che quando avevamo diciassette anni era riuscito a farsi pubblicare un romanzo da una grossa casa editrice” cercai di fargli ricordare.
   “Mmh… forse ho capito, ma non l’ho mai conosciuto personalmente”.
   “Ebbene, è lui il fornitore di cui ti parlavo”.
   “Non capisco. È un fornitore oppure un romanziere?”.
   “Credo che faccia entrambe le cose. Si sa che in Italia non si campa scrivendo romanzi, a meno che tu non sia un pezzo grosso”.
   E così alle otto in punto Joe venne a prendermi. Quando mi vide uscire dal portone (devo dire che sembravo proprio una pornodiva) uscì dalla macchina e in modo galante venne a baciarmi le guance e ad aprirmi la portiera per farmi salire in auto. Mentre entravo mi sussurrò che ero bellissima. Lo ringraziai. Lui era vestito in modo molto elegante, quasi da cerimonia. Segno che mi stava portando sicuramente in un ristorante molto esclusivo.
   Lungo il tragitto non sapevamo bene da dove cominciare a parlare. E così lui mi chiese della mia attività, e io gli spiegai che il negozio nominalmente era di mia madre, ma che in pratica lo gestivo io. Ma non mi soffermai molto a parlargli del negozio di intimo, perché obiettivamente non c’era molto da dire. Piuttosto mi sarebbe piaciuto sentire parlare di lui. E allora gli feci a bruciapelo quella domanda che mi ronzava nella testa da tutto il pomeriggio, ovvero: “come va con i tuoi romanzi? Ricordo che quando avevamo diciassette anni eri già molto popolare, immagino che adesso sarai una specie di celebrità”.
   “Non proprio” rispose lui, e sembrava molto demoralizzato e forse avrei fatto bene a farmi i fatti miei. Ma chi poteva saperlo che in realtà Joe era stato una stella cadente? Avete presente le stelle cadenti, che lasciano quella scia luminosa, e che per qualche istante brillano come matte, e che poi all’improvviso si spengono? Ebbene, la carriera letteraria di Joe aveva subito la stessa sorte. “Purtroppo nell’ambiente delle case editrici ci devi sapere fare, devi avere la faccia tosta e devi fare il ruffiano se vuoi rimanere sulla cresta dell’onda. Tutte cose che io non so fare. Sai, è un po' come la politica, vince chi c’ha di più la faccia come il culo. E io ho perso. Hanno sfruttato il caso letterario del momento, il ragazzino di diciassette anni che ha sfornato un romanzo, e poi mi hanno abbandonato quando non gli sono più servito”.
   “Eppure io credevo che saresti diventato uno scrittore di fama internazionale” dissi.
   “Lo credevo anch’io. E infatti è stata una grandissima delusione quando ho scoperto che non era niente vero. Ricordo ancora quando l’editore mi diceva che io ero per loro come un figlio, che mi avrebbero allevato e cresciuto. Non era niente vero. Mi stavano mentendo. Alla prima occasione mi hanno abbandonato come un cane. A loro non gliene frega niente se un autore è valido, per loro l’importante è solo vendere. Quindi magari pubblicano il libro di un calciatore piuttosto che il libro di un giovane autore promettente, perché il calciatore vende di più. Loro non erano interessati al mio libro perché lo ritenevano un romanzo valido, a loro interessava soltanto che fosse stato un ragazzino a scriverlo, e quindi questo avrebbe attirato le masse incuriosite a comprarlo. Perchè per loro la cosa fondamentale è vendere. Punto. Il mondo dell’editoria fa schifo”.
   Intanto eravamo arrivati al ristorante. In effetti aveva scelto per la nostra reunion un posto veramente elegante, con la musica jazz in sottofondo, le luci soffuse e una romantica candela che si interponeva tra me e lui. Le persone presenti, tutti ricconi benestanti, non facevano che guardarmi. Alcuni mi guardavano in modo sdegnoso, perché probabilmente ero vestita in modo troppo volgare per il loro target. Altri, chiaramente gli uomini, mi guardavano con i loro occhi accesi di desiderio. Morivano dalla voglia di portarmi a letto con loro e farmi le peggio schifezze che la mente di un maschio poteva immaginare.
   Ci portarono delle pietanze davvero ridicole; odiavo i ristoranti in cui si mangiava in quel modo, cioè con un piatto gigante con una cacatina in mezzo che sembrava il patè che si da ai gatti, e poi alla fine avevi più fame di prima. Io presi i ravioli con ripieno di formaggio e pera, e non esagero se vi dico che nel piatto ce n’erano quattro. Ragazzi, quattro! Quattro stupidissimi ravioli, che a casa mia servivano soltanto ad assaggiare per poi stabilire se andavano bene di sale. Preferivo di gran lunga le osterie, dove ti portavano un piatto traboccante di bucatini alla amatriciana. Quello è mangiare.
   “E quindi, per ritornare al discorso di prima, hai smesso di scrivere e ti sei dedicato al mondo della distribuzione” dissi cercando di riassumere la vita di Joe in poche parole.
   “No, chi ti ha detto che ho smesso di scrivere? Scrivo ancora, ma lo faccio gratis. Pubblico i miei romanzi su Internet. Sono lì, alla portata di tutti, e soprattutto li pubblico senza l’insopportabile supervisione di un editor che ti dice cosa va e cosa non va bene. Sono l’editor di me stesso, e scrivo quello che mi pare”.
   “E cosa scrivi?”.
   “Racconti erotici” mi rispose sicuro di se.
   Per poco non scoppiai a ridere. Credevo che mi stesse prendendo in giro. E invece stava dicendo la verità. Scriveva racconti erotici perché gli piaceva farlo, e perché essendo l’editore di se stesso si sentiva libero di scrivere quello che voleva, senza freni, senza censure.

Moana.
  

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