giovedì 9 marzo 2017

Parolacce ed altri epiteti amorosi.

(in foto: Jessie Rogers, Teen Ass Workship, TeenFidelity.com)


   Devo ammettere che quello delle parolacce era un aspetto che non conoscevo ancora di Moana. Quando facevamo l’amore le piaceva se usavo nei suoi confronti un linguaggio sboccato, e quindi voleva che mi rivolgessi a lei chiamandola con degli appellativi a mio avviso irrispettosi. Quasi come se per lei il fatto di sentirsi umiliata facesse parte dell’amore. Avevo provato a dirle che secondo me era inopportuno se usavo quel linguaggio, ma lei mi aveva risposto che se lo facevo con amore allora non lo era. E allora capitava che ci si vedeva il pomeriggio per andare a fare una passeggiata al centro e lei mi chiedeva: “ti è mancata la tua puttanella?”.
   E io per farle piacere stavo al suo gioco: “sì, tanto”.
   E lei: “e allora dimmelo”.
   E io: “mi è mancata la mia puttanella”.
   E a quel punto lei contenta del fatto che l’avevo accontentata dicendo quella cosa mi baciava con la lingua.
   Sempre per farvi capire quanto le piaceva che la chiamassi in quel modo vi racconto di un episodio piuttosto significativo. Era appena ricominciata la scuola; per la cronaca io e Moana eravamo al quinto anno. All’uscita di scuola era nostra abitudine vederci per passare qualche oretta insieme, prima di ritornare a casa. Un giorno, faceva ancora caldo, ce ne andammo al parco della reggia. In città c’è infatti una reggia che ci rende famosi in tutto il mondo. Ci eravamo messi sotto ad un albero a limonare pesantemente; eravamo in piedi, io con le spalle all’albero e lei premuta contro di me. Avevo il cazzo durissimo e lei se ne era accorta, perché non faceva che premere l’inguine contro la mia erezione. Ad un certo punto mi aprì la lampo dei jeans e infilò la mano dentro, oltrepassò agilmente i miei slip e mi tirò fuori il sesso fieramente dritto. Afferrò saldamente l’asta e iniziò a segarmi lentamente ma con decisione. Allora feci lo stesso, e le sbottonai gli hot pants che indossava e infilai una mano tra le sue cosce. Mi feci strada nel suo perizoma e incontrai le labbra bagnate della sua fighetta e cominciai a sgrillettarla. Moana smise di baciarmi e iniziò a fissarmi, proprio come quando facevamo l’amore. Le piaceva guardarmi mentre godeva. Ad un certo punto mi disse di chiamarla in un modo davvero poco carino.
   “Dimmi che sono la tua cagna”.
   “Cosa?!”.
   “Dai dimmelo. Cosa sono io? Ti prego, dimmelo”.
   “Sei la mia cagna”.
   A quel punto quasi come se la sua eccitazione avesse avuto un’energica spinta, roteò gli occhi verso l’alto, come faceva quando stava per raggiungere il piacere, e emise un rantolo e poi le cominciarono a tremare le gambe. Moana stava venendo, e allora accelerò il ritmo del suo polso quasi come se le sue intenzioni fossero quelle di farmi venire insieme a lei. E ci riuscì, infatti iniziai a sborrare e i miei schizzi le saltarono sull’ombelico e colarono giù, fino alle sue labbra di sotto.
   Tutto questo per farvi capire che Moana perdeva la testa quando usavo con lei un linguaggio osceno, rivolgendole epiteti amorosi davvero poco carini. Quasi come se quella cosa fosse parte dell’amore, un suo completamento. Il suo piacere giungeva al punto più alto quando si sentiva dire da me cose oscene, che in qualche modo la umiliavano, la degradavano. Qualche volta prima di salutarci e di ritornare a casa per esempio io le dicevo: “ciao tesoro, a domani”. E lei: “no, dillo meglio. Devi dire ciao troietta, a domani”. E io: “dai, hai sempre voglia di scherzare”. E lei: “se non me lo dici vuol dire che non mi ami”. E allora io a quel punto cedevo: “e va bene. Ciao troietta, a domani”. A quel punto mi baciava e poi ognuno a casa propria.
   Una volta è successo addirittura che ero andato a pranzo dai suoi, e dopo mangiato io e Moana ci siamo messi su una poltrona del soggiorno; lei era seduta su di me e mi teneva le braccia allacciate al collo. Ad un certo punto fece: “chi è la tua puttanella?”.
   “Dai Moana, i tuoi potrebbero sentirci”.
   “E allora dillo sottovoce. Chi è la tua puttanella?”.
   “Sei tu la mia puttanella”.
   A quel punto mi baciò, ancora una volta felice che l’avevo accontentata. Ma né io né lei ci eravamo accorti che dietro di noi c’era sua madre che si apprestava a ritornare a lavoro, e era lì che stava rovistando dappertutto nel disperato tentativo di trovare le chiavi della sua macchina. Dopo aver sentito quella cosa incrociò le braccia e ci guardò divertita.
   “Senti puttanella, hai visto le mie chiavi?”.
   “Mamma!” Moana ebbe un sussulto e mi tolse le braccia dal collo. “Da quanto tempo ero lì?”.
   “Abbastanza. Comunque mi piace questo appellativo amoroso. Ogni coppia ne ha uno. Ma il tuo ti si addice proprio tanto”.
   “Mamma!”.
   “Io torno al negozio” disse dopo aver trovato le chiavi. Erano finite in un sottovaso di una pianta ornamentale che stava su una mensola. “Mi raccomando a quella poltrona, è vera pelle. Datele una pulita quando avete finito”.

Berni.

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