venerdì 23 febbraio 2018

Sottomissione totale.

Sottomissione totale.

(in foto: sorokinofoto.ru)


   Quella sera ritornai a casa dei miei genitori; Berni ancora non si era fatto vivo, e iniziavo seriamente a preoccuparmi. Da quando avevamo litigato era scomparso e aveva addirittura spento il telefono. A cena ne parlai con mia madre; eravamo soltanto noi due e mio cugino Erri. I miei due papà erano a lavoro. Di solito rientravano non prima delle dieci di sera. Mia madre mi disse che riguardo a Berni non c’era da preoccuparsi. Presto si sarebbe fatto vivo lui. Forse aveva soltanto bisogno di riflettere.
   Dopo cena mia madre se ne andò in camera da letto, e dopo dieci minuti andai a farle compagnia. Era davanti alla specchiera che si stava pettinando i capelli; indossava una delle sue vestaglie da notte trasparenti che nascondevano ben poco, anzi a dirla tutta era come se non c’avesse niente addosso. Infatti si vedeva tutto. Ma d’altronde lei non aveva niente da nascondere. Conoscevo bene il suo corpo. Come ben sapete nella mia famiglia lo stare nudi non era mai stato motivo di imbarazzo. Avevo visto i miei genitori senza vestiti centinaia di volte, e loro avevano visto me, per cui non c’era proprio nulla da nascondere.
   “Tesoro” esultò mia madre quando si accorse di me. Mi guardò attraverso lo specchio e continuò a pettinarsi. “Come mai da queste parti?”.
   In effetti non era mia abitudine intrufolarmi nella camera da letto dei miei, a meno che non ci fosse un valido motivo per farlo. E quella sera il motivo era che avevo voglia di parlare con lei. La raggiunsi e mi misi dietro di lei e iniziai a guardarla anche io attraverso lo specchio, e lei allo stesso modo guardava me, ma con un sorriso di circostanza, quasi come se stesse per chiedermi cosa avessi da guardarla in quel modo. Ma non lo fece. Piuttosto si scostò i capelli di lato e piegò leggermente il collo verso sinistra per pettinarsi meglio, e a quel punto lo vidi, era lì, proprio davanti ai miei occhi,  dietro il suo collo, il marchio impresso sulla sua pelle, il marchio che indicava che lei apparteneva ad un uomo, e cioè al mio papà biologico, l’iniziale del suo nome, quella G stilizzata, era lì a dirlo al mondo intero: questa donna appartiene a me. Rimasi a fissarla per tutto il tempo che lei impiegò per pettinarsi i capelli, chiedendomi come fosse possibile che una donna potesse piegarsi ad un uomo in quel modo.
   “Se tu potessi tornare indietro nel tempo, lo rifaresti?” le chiesi.
   “Che cosa?” domandò divertita.
   “Il tatuaggio che hai dietro il collo” risposi. “Voglio dire, non è una cosa da poco. È una specie di marchio indelebile che denota chiaramente la tua totale sottomissione ad un uomo”.
   “Moana, ma che dici?” mi domandò lei incredula e quasi inorridita da ciò che stavo dicendo. “Ma cosa ti salta in testa? Totale sottomissione? Non posso credere che tu abbia detto una cosa del genere. Io ho fatto quel tatuaggio perché amavo tuo padre, e lo amo tutt’ora. Certamente non l’ho fatto per esprimere la mia totale sottomissione a lui”.
   A chi voleva darla a bere? Io continuavo ad essere della mia opinione, e cioè che quel tatuaggio esprimeva un concetto preciso, e cioè che lei era (e probabilmente era orgogliosa di esserlo) la schiavetta del sesso del mio papà biologico. Ma forse in lei c’era un barlume di orgoglio che in qualche modo la obbligava a dire il contrario. Ma io sapevo qual’era la verità.
   “E comunque?” la incalzai. 
   “Vuoi sapere se lo rifarei?” mi domandò un po' spazientita. “Certo che lo rifarei. Sono molto orgogliosa di averlo fatto, perché amo follemente tuo padre. Ma dimmi piuttosto, scommetto che se sei entrata nella mia camera da letto non è certo per chiedermi del mio tatuaggio”.
   “No, infatti. Volevo dirti che sono andata a trovare il mio… come dire? Nonno biologico”.
   A quel punto mia madre smise di pettinarsi e si girò verso di me a guardarmi negli occhi, interessata a sapere tutto ciò che avevo da dire. Le parlai un po' delle impressioni che avevo avuto entrando in quella casa, e cioè le dissi di aver avuto la sensazione di esserci già stata. Era stato come ritornare in un luogo a cui ero profondamente legata. 
   “Hai avuto questa sensazione forse perché è lì che sei stata concepita” mi rispose con dolcezza, quasi come se quello che le stavo dicendo le avesse ravvivato il piacevole ricordo di quando fu fecondata dal mio papà biologico. Ma io in realtà, e lei non poteva saperlo, l’avevo intuito da sola che la monta era avvenuta lì. Il punto è che avevo percepito una presenza che aveva poco a che vedere con il mio concepimento. Non so per quale motivo, ma ero quasi certa che durante la monta mia madre e mio padre non fossero soli. C’era qualcun’altro. Qualcuno che partecipava attivamente, anche se non aveva alcun ruolo riguardo al mio concepimento.
   “Mamma, ti andrebbe di raccontarmi come sono andate veramente le cose?” le chiesi, e lei sembrò un po' sorpresa, come se non sapesse cosa dire, e allora mi sorrise e mi disse che c’era ben poco da raccontare.
   “Cosa vuoi che ti dica?” rispose divertita. “Non capisco”.
   “Innanzitutto quanti eravate lì in camera di papà?”.
   “Non crederai mica a quello che dicono le persone? E cioè che sei stata concepita durante una gangbang?” mia madre era visibilmente nervosa, era come se non avesse voglia di parlarne. Il fatto è che io invece volevo sapere tutto quanto, e non me ne sarei andata senza delle risposte.
   “Allora eravate soltanto tu e lui?” mia madre non sapeva mentire, per cui se sarei riuscita a giocarmi bene le mie carte allora mi avrebbe detto ogni cosa.
   “Non proprio” mi rispose, e poi si girò di nuovo verso lo specchio continuando a fare quello che stava facendo prima, cioè pettinarsi, anche se non ne aveva più bisogno. Il suo era solo un diversivo per non guardarmi negli occhi. Per la prima volta ebbi la sensazione che mia madre aveva paura di essere giudicata. “C’era anche l’altro papà”.
   “E lui che faceva?” credevo di conoscere già la risposta, ma glielo chiesi lo stesso.
   “Guardava”. 
   “E poi c’era qualcun’altro?”.
   “Si può sapere perché mi stai facendo questo interrogatorio?” mi chiese stizzita.
   “Ti prego mamma, rispondimi. C’era qualcun’altro?”.
   “Sì, un amico”.
   “E che faceva?”.
   “Mi penetrava analmente”.
   “Cioè, papà ti penetrava davanti e lui ti penetrava dietro?”.
   “Sì”.
   “A questo punto dimmi anche chi era questo amico”.
   “Era Franco”.
  
Moana. 

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