martedì 17 luglio 2018

La punizione.

La punizione. 

(in foto: Kate Upton)


[postato da Moana]

   Dopo quel brutto gesto che aveva fatto Berni ce n’eravamo andati in camera da letto a fare l’amore. Ma lo abbiamo fatto nel modo classico, lui sopra e io sotto, e solo davanti. E poi io lo avevo fatto senza averne realmente voglia, soltanto per dare piacere a lui. E infatti dopo avermi sborrato dentro ci siamo messi a dormire. Ma poi mi sono svegliata alle tre del mattino e ho trovato Berni seduto sui bordi del letto con la testa tra le mani, come se gli fosse capitato qualcosa di terribile. E allora mi sono messa dietro di lui e con le mani gli ho iniziato ad accarezzare la schiena.
   “Tesoro, stai bene?”.
   “Non proprio. Il pensiero di quello che ti ho fatto non mi da pace. Sto attraversando un periodo molto difficile. Con il lavoro sono fermo e non so dove sbattere la testa. L’unica cosa positiva al momento sei tu, e io che faccio? A momenti ti soffoco. Non dovresti più rivolgermi la parola per quello che ho fatto”.
   “Devi soltanto promettermi che non lo farai più” gli risposi con decisione. “Ho avuto molta paura”.
   “Te lo prometto. Ma voglio essere punito per quello che ho fatto. Devi colpirmi”.
   “Che?! E con cosa dovrei colpirti?”.
   “Con una sedia, una padella, con qualsiasi cosa. Tu devi punirmi”.
   “Stai delirando Berni, rimettiamoci a dormire e non ci pensiamo più”.
   “Se non lo fai non ci riuscirò mai a mettermi l’animo in pace”.
   Perché ci stavo mettendo così tanto tempo? La Moana di una volta non avrebbe esitato a farlo; avrebbe serrato il pugno e si sarebbe fatta giustizia in pochi istanti. E invece adesso non riuscivo a fare niente.   
   Ad un certo punto mi decisi, tirai un lungo respiro e mi feci coraggio, chiusi il pugno e cercai di fare quello che mi aveva chiesto, e cioè vendicarmi. Caricai il braccio e a breve lo avrei colpito sul suo viso con tutta la forza che avevo. Ma non riuscivo a farlo, non ero abbastanza convinta. Quasi come se non ne avessi voglia, perché non lo ritenevo giusto. Quanto ero cambiata. Ma perché? Forse perché avevo paura di restare sola, ecco perché. Perché avevo bisogno di Berni, e soprattutto perché la mia piccola Cleopatra aveva bisogno di un papà. Possibile che ero diventata così succube di lui a tal punto da passare sopra a quello che mi aveva fatto quella sera? Insomma, mi aveva quasi strozzata e io non riuscivo a fare quello che sarebbe stato più giusto, e cioè rompergli il naso. D’altronde me lo stava chiedendo lui, e io non avevo neppure il coraggio di farlo. Così abbassai il braccio e gli dissi che non mi andava di farlo.
   “E allora promettimi che dimenticherai ciò che ho detto” mi disse. “E cioè che voglio che diventi la mia schiava del sesso e che voglio che tu faccia un altro film insieme a me”.
   “Ok, farò finta che tu non l’abbia mai detto”.
   “È orribile che ti abbia detto quelle cose. Mi vergogno da morire”.
   “Non sei stato tu a dirle. Non eri tu quello lì ieri sera, ma era un altro Berni. E non voglio più averci niente a che fare con lui. Io voglio solo te, il Berni che ho conosciuto sei anni fa in quel caldo pomeriggio d’agosto”.
   Sì, perché per chi non lo ricordasse io e Berni ci siamo conosciuti appunto in un caldo pomeriggio d’agosto; la città era un deserto in cui rombava l’assordante canto delle cicale. Ci siamo conosciuti grazie ad un’amica in comune, che quel giorno dovevo vedere per un saluto prima delle vacanze estive. Lei aveva deciso di venire all’appuntamento insieme a Berni. Me ne accorsi subito che gli piacevo molto, e che mi voleva, che gli sarebbe piaciuto godere col mio corpo, lo vedevo da come mi guardava, da come abbassava lo sguardo ogni volta che i nostri occhi si incrociavano, e poi quando gli facevo qualche domanda lui sembrava andare nel panico e quindi non riusciva a mettere due parole insieme. Mi fece una gran tenerezza, e così alla fine gli scrissi il mio numero di telefono sul palmo di una mano, e gli dissi di richiamarmi. E lui ovviamente lo fece. E quindi lo rividi il giorno prima di partire per le vacanze, e non lo feci aspettare, gli diedi subito quello che aveva desiderato fin dal primo momento che mi aveva vista, o perlomeno solo una parte: la bocca. Poi il resto glielo avrei dato quando sarei ritornata. E infatti al mio rientro gli diedi anche gli altri buchi. E poi il seguito della storia lo conoscete.
   In quel caldo pomeriggio d’estate mai mi sarei aspettata che io e Berni saremmo arrivati fino a questo punto, e cioè fino ad avere una figlia e ad avere una casa tutta nostra. E non avrei mai immaginato neppure che un giorno mi avrebbe messo le mani addosso, come aveva fatto quella sera. Eppure non sentivo la necessità di volermi vendicare, perché appunto, come avevo detto a lui, avevo avuto l’impressione che non fosse stato lui a farmi quella cosa, piuttosto un altro Berni, un Berni che avrei sacrificato volentieri, che avrei volentieri gettato giù da un ponte. Ma non mi andava di rinunciare anche al vero Berni, quello che appunto avevo conosciuto in quel caldo pomeriggio. Quello che mi aveva reso mamma.
   Dopo aver chiarito quella storia ritornammo a dormire. Ma alle sei del mattino mi svegliai; avevo una strana sensazione, quasi come se sentissi il bisogno di fare qualcosa, e finché non l’avessi fatta non sarei riuscita a darmi pace. E allora raggiunsi l’ingresso di casa, dove c’era una cassapanca con dentro una mazza da softball. Non tutti lo sanno, perché non è una cosa che racconto spesso, ma quando ero ragazzina facevo parte della squadra di softball della città. Ero anche molto brava, e lo avevo fatto fino a diciassette anni, poi la squadra era fallita e quindi avevo lasciato perdere. Il presidente era scappato all’estero con i soldi della società e quindi era andato tutto in malora. Ero anche stata eletta caposquadra. Ho molti bei ricordi legati a quel periodo, per esempio le trasferte che facevamo, quando dovevamo incontrarci con le squadre delle altre città, oppure le partite che facevamo in casa, la domenica; i miei genitori venivano sempre a fare il tifo per me. E io li guardavo dal campo, vedevo mia madre sbracciarsi, era fiera di me, mi gridava: “falli a pezzi!”. Si riferiva agli avversari di turno. E io allora l’accontentavo; li facevo a pezzi. E lo facevo grazie alla mia mazza, che io avevo ribattezzato Morgana, come la maga dei romanzi di re Artù che mio padre spesso mi leggeva per farmi addormentare.
   Ogni tanto aprivo la cassapanca e la tiravo fuori, me la rigiravo tra le mani, la osservavo, la tastavo e… sì, lo ammetto, qualche volta ci avevo fatto anche qualche porcata. Morgana era da sempre la mia fedele amica. Ormai era da parecchio che non le facevo prendere aria, ma quella sera l’avrei utilizzata non per vincere una partita, né per farmi passare qualche sfizio di natura erotica, piuttosto mi sarei servita di lei per ottenere giustizia. Anche se avevo perdonato Berni, dentro di me sentivo che in qualche modo dovevo fargliela pagare.

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