giovedì 7 maggio 2015

L'anima immortale. 

(in foto: Rachel James, CastingCouch-X.com)


   Il giorno dopo avrei dovuto incontrare il professor Oscar. Mi aspettava nel suo studio alle dieci. Feci colazione da sola, dal momento che i miei non c’erano. Erano già andati a lavoro, e quindi mi dovetti preparare la colazione da sola. Riempii una tazza di latte affondandoci sette frollini dentro, i quali nel giro di qualche manciata di secondi si spappolarono e diventarono una poltiglia che raccolsi col cucchiaio.
   E lungo la strada li sentivo salirmi su in continuazione, come se non li avessi digeriti. E quel saporaccio non andava via in nessun modo, neppure dopo che mi ero lavata i denti. Nel tram ebbi l’impressione di essere spiata e allora mi guardai intorno, ed era come se ce l’avessero tutti con me. Come se sapessero che cosa avrei fatto alle dieci. Era inequivocabile. Ce l’avevo scritto in fronte. Era scritto pure sui giornali che quella mattina, la sottoscritta Martina, avrebbe eseguito un magistrale pompino al suo professore di semiotica dell’erotismo. Lo sapevano tutti. Perché Martina era una puttana. Nient’altro che una puttana. Lo sapevano pure i muri.
   Quei pensieri mi perseguitarono, e fui costretta a scendere dal mezzo pubblico per prendere un po’ d’aria fresca e scacciare quei demoni dalla mia testa. E così raggiunsi la facoltà a piedi e all’ingresso ci trovai Peo con una faccia da appestato, come se fosse rimasto sveglio per tutta la notte, e quando mi vide scattò sull’attenti e mi disse di essere molto arrabbiato per l'atteggiamento che Angelo aveva nei miei confronti, e che meritavo di meglio, ma io lo ignorai e andai per la mia strada. Peo mi venne dietro, pregandomi di ascoltarlo, ma per me era come se non ci fosse. Alla fine mi prese un braccio con una certa rabbia, come se io fossi sua di diritto, e allora mi girai verso di lui e gliene dissi quattro.
- Ascoltami Peo, io e Angelo stiamo insieme. E a me va bene così. Mettitelo bene in testa. Ora se non ti dispiace, avrei un appuntamento.
- Con chi?
- Questi non sono affari che ti riguardano.
- Tu non vai proprio da nessuna parte – urlò e mi colpì una guancia con uno schiaffo.
   Mi accarezzai la parte lesa e mi si arrossarono gli occhi, poi iniziai a piangere e a singhiozzare, e lui mi guardava come un rincoglionito, come se non capisse quello che aveva appena fatto.
- Sei uno stronzo – dissi con un filo di voce. – Hai capito cosa sei? Sei uno stronzo.
   E così mi misi a correre in parte perché avevo paura che me ne desse altri di schiaffi, e in parte perché non volevo che mi vedesse piangere. Ma continuai a singhiozzare per tutto il tragitto che dovevo ancora percorrere per arrivare da Oscar. Entrai nel suo studio senza neppure bussare; spalancai la porta, e lui vide il mio viso rigato dall’eyeliner che intanto si era sciolto per via del pianto. Se ne stava dietro la sua scrivania a leggere un libro sull’arte del fare l’amore, e quando mi vide in quello stato si alzò dalla sedia e mi venne incontro.
- Signorina, cosa le è successo? – poi chiuse la porta dell’ufficio a chiave e mi accarezzò il viso con una mano.
- Niente, non si preoccupi. Ho appena ricevuto uno schiaffo – risposi e nel frattempo gli tirai giù la lampo dei pantaloni e infilai dentro la mano destra, alla ricerca del suo cazzo che trovai ancora piuttosto moscio.
- Chi mai farebbe una cosa simile ad una creatura meravigliosa come lei? – mentre glielo tiravo fuori lui mi prese il viso con entrambe le mani e mi baciò, e per la prima volta le nostre lingue si incontrarono, e la sua vorace bocca mi divorò, e diventai sua in pochi attimi. Intanto, mentre mi baciava, il cazzo gli era diventato di marmo e io lo tenevo stretto in una mano, dandogli qualche colpetto di tanto in tanto.
- Mi ami, almeno lei professore – sussurrai con un tono di voce piuttosto malinconico. – Faccia di me ciò che vuole, ma la prego in ginocchio, mi ami per ciò che sono.
- Ma certo porcellina mia – rispose lui. – Come si può non amare il suo corpo e le sue sorprendenti capacità? Quello che ha lei è un vero tesoro – a quel punto mi aprì la camicetta strappandomi via tutti i bottoni e le mie tette nude uscirono fuori, libere e felici. Tirò su la minigonna scoprendomi le natiche e quindi il perizoma viola che avevo messo su quella mattina. Poi mi fece piegare col busto sulla sua scrivania, con i seni schiacciati contro i suoi libri e il culo ad altezza cazzo.
   Mi tirò giù le mutandine e sentii la punta del suo membro premere contro le labbra della vagina, prima accarezzandole gentilmente, e poi facendosi strada dentro, lentamente. Dopo un paio di secondi era dentro in tutta la sua interezza. Mi prese per i fianchi e iniziò a scoparmi e io chiusi gli occhi e in me ritornò la gioia. Oscar mi amava, lo sentivo. O forse amava il mio corpo, ma questo mi bastava. Almeno mi accettava per quello che ero, una zoccola. Con lui non dovevo nascondermi, non dovevo fingere, lui sapeva quello che ero.
- Questo è il paradiso – sussurrò mentre mi penetrava. – E io lo voglio conquistare.
- Lei lo ha già conquistato, professore.
- No, questo non è abbastanza – continuò, e a quel punto spalancai gli occhi dallo stupore. D’altronde gli avevo dato tutto: gli avevo dato il culo, la bocca e la vagina. Cos’altro poteva volere?
- Non capisco, professore – dissi, e nel mentre il suo duro membro entrava e usciva dal mio corpo, e la mente mi si annebbiava lentamente, perché ero sull’orlo di un orgasmo. Me lo sentivo, stava arrivando e io lo avrei accolto, come un dono mandato dal cielo.
- Io voglio immortalarti – disse. – Voglio trasformarti in un’icona della storia. Voglio che nei futuri libri di storia dell’arte si parli di te. Perché creature come te ne nascono una ogni cento anni.
   Sarà stata la sua voce, il suo timbro caldo, lo scorrere delle sue parole, ma arrivò l’orgasmo e il mio corpo ebbe un sussulto, e mi afflosciai sulla scrivania, semi addormentata, mentre lui seguitò nel penetrarmi per almeno altri dieci minuti, parlando del mio futuro, dell’immortalità della mia anima, della sublimazione del mio corpo. Ma riuscivo a sentirlo appena, perché ero come svenuta. Oscar stava scopando un corpo esanime e io ero sua. Poi fece uscire il suo cazzo e iniziò a fiottare, e gli schizzi si adagiarono garbatamente sulle mie natiche, senza svegliarmi. E me ne restai in quella posizione per un’altra manciata di minuti; poi facendo forza su entrambe le braccia mi sollevai dalla scrivania. Avevo la mente ovattata, le tette al vento, il sedere sporco. Ero rinata. Oscar ritornò a sedere dietro la scrivania e mi fece segno di sedermi davanti a lui. Mi parlò di lui, cosa che non aveva ancora fatto. In effetti sapevo così poco sul suo conto, che quando mi disse che il suo nome era conosciuto in tutto il mondo, tranne che in Italia, mi stupì molto.
- In Italia la materia dei miei studi è fonte di forte imbarazzo. La nostra forma mentis è troppo ristretta per accogliere il fatto che l’erotismo è un qualcosa che è al di sopra delle nostre capacità. Una specie di energia universale che ci accomuna tutti, ma che però aborriamo a causa del perbenismo collettivo. L’Italia non è pronta per accogliere questa filosofia. In questo paese l’erotismo è una beffa, una materia paurosa che bisogna denigrare e trasformare in barzelletta. Ma non per lei, signorina Martina. Lei è diversa. Ed è proprio per questo motivo che ho deciso di prenderla sotto la mia custodia. D’ora in poi, lei non dovrà più preoccuparsi di nulla. Finchè ci sarò io, lei sarà sotto la mia protezione. Lei è un elemento raro in questa società di fantocci. A questo proposito, presto dovrò realizzare una mostra fotografica a Berlino, e lei sarà la punta di diamante della rassegna. Adesso si rivesta. Avrà senz’altro da fare stamattina, e io non voglio rubarle altro tempo.
   Pur volendo, non potevo uscire da quello studio, perché i bottoni della camicetta erano tutti strappati. Oscar se ne rese conto e sorrise, così rovistò in un cassetto, e per fortuna ne aveva una delle sue. Un po’ mascolina, certo, ma meglio che andare per strada nuda. E così me ne andai, ma mi stupì il fatto che non avevamo per niente parlato della mia tesi. Era forse il suo modo per dirmi che potevo muovermi come meglio credevo?

Martina.

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